Il museo dedicato a Federico Fellini, recentemente aperto a Rimini, è un omaggio al maestro del cinema italiano che vuole esaltarne l’eredità culturale.
Non si può parlare di cinema in Italia senza in qualche modo menzionare Federico Fellini… e per una buona ragione! Il regista divenuto simbolo del cinema nostrano per antonomasia è stato senza alcun dubbio uno dei più grandi esponenti della storia della settima arte: il suo stile onirico, surreale e in parte autobiografico Fellini ha saputo raccontare la società italiana del ventesimo secolo come nessun’altro, dipingendo perfettamente sogni, paure e ricordi del nostro Paese in quegl’anni. Chi ha letto i miei articoli sul cinema a questo punto saprà che sono un appassionato della materia e, una volta informato del fatto che quest’anno il museo dedicato a Fellini avrebbe finalmente aperto le porte al pubblico, non potevo certo farmi sfuggire l’occasione.
Sogni di celluloide in digitale
Partiamo subito col dire che, visto da fuori, Castel Sismondo non sembra affatto la cornice ideale in cui accogliere una mostra dedicata a Fellini: la sua struttura, così imponente e massiccia, appare in netta antitesi con l’immaginario del regista. Si tratta però solo di una facciata: una volta varcata la soglia tutto si trasforma e si viene accolti da un ambiente fatto di ricordi e di sogni. Appena entrati le luci si abbassano e ci si trova di fronte a due file di proiezioni di Giulietta Masina, moglie e attrice prediletta di Fellini, nelle sue migliori performance che conducono direttamente al carro di “La strada”. Poco più avanti tanti personaggi felliniani, tutti interpretati da Marcello Mastroianni, si fronteggiano e si alternano tra tanti schermi appesi al muro dando vita a un dialogo immaginario in cui vengono a galla i temi cari al regista.
Proseguendo lungo il percorso previsto si passa dai volti ai luoghi del cinema di Fellini: prima la costa riminese, ricreata tramite proiettori digitali, schermi, teli e oggetti di scena, che fece da sfondo a “I vitelloni” e “Amarcord” e poi la Roma che fu teatro de “La dolce vita” e di “Lo sceicco bianco”. La tappa successiva è dedicata al Fellini onirico e in particolare ai costumi e alle invenzioni de “Il Casanova” e “Roma”. Qui l’attenzione viene posta sull’originalità e la creatività dell’autore, capace di riadattare anche figure dell’immaginario collettivo alla propria visione artistica.
La sala delle altalene, in cui spezzoni tratti da opere del maestro dondolano a fianco di filmati d’epoca, segna l’inizio dell’ultima parte del tour in cui viene mostrata la parte più profonda del regista. Poco lontano da leggii in legno su cui vengono proiettati in formato digitale spezzoni dei libri scritti da Fellini, si trova la Sala del Libro dei sogni, dove è possibile soffiare su una piuma posta all’altezza dei nostri occhi e attivare una serie di gigantografie dei disegni e della scrittura onirica prese dalle pagine del celebre tomo felliniano.
In conclusione l’intero castello si trasforma in un teatro, dove ogni singolo centimetro di spazio disponibile viene sfruttato e impiegato per dare corpo alla mostra: la tecnologia digitale, qui usata in maniera oculata e mai invasiva, ha permesso di creare vere e proprie scenografie interattive in cui far letteralmente immergere il visitatore dentro l’intera opera del maestro. Il curatore Marco Bertozzi afferma che in questo museo “bisogna farsi spett’autori, in modo da portarsi a casa il proprio Fellini”: se questo era lo scopo della mostra, a mio avviso è pienamente riuscita.
L’eredità di Fellini
Fare una mostra su Fellini sulla carta era una cosa facile… creare una mostra che facesse vivere davvero Fellini sembrava un’impresa quasi impossibile: riuscire infatti a racchiudere in una singola esposizione il pensiero di un artista per cui “il visionario è l’unico realista” è ben più di quanto si possa chiedere a chiunque. Il fatto è che il suo stile, quel “fantarealismo” che nasce dal quotidiano e si sviluppa nell’onirico non è solo un modo di fare cinema ma una visione del mondo: una poetica unica e trasognante che ancora oggi fatica a essere pienamente compresa a causa del suo ermetismo, dove realtà e verità si sgretolano per far posto a sensazioni uniche, immaginifiche e indescrivibili, le cui parole non possono nulla.
L’ombra della sua grandezza però è rimasta ed è tutt’oggi parte della nostra cultura digitale così distante dall’Italia raccontata dal maestro: a provarlo nel dizionario ci sono le parole “paparazzo”, “amarcord” e “vitellone”. Ci sono aeroporti, strade, piazzali, scuole medie e licei intitolati a Federico Fellini. La maggioranza dei millennial, pur non avendo mai visto un suo film, al parlare de “La dolce vita” ricollega subito l’immagine di Mastroianni e Anita Ekberg a mollo nella Fontana di Trevi. Se si pensa che ai suoi tempi molti critici gli diedero del “grossolano” la cosa assume quasi toni paradossali.
Eppure oggi siamo qui ancora a parlare del suo cinema e delle sue opere, divise tra sacro e profano, dramma e commedia, sogno e realtà. “Nulla si sa, tutto si immagina” diceva il maestro… e a noi quindi non resta che immaginare se ci sarà mai qualcun altro grande e visionario quanto lui.