Onestamente, non credo sia più il caso di fare a meno di un linguaggio inclusivo all’interno dei canali digitali a meno che si scelga volutamente di non usarlo, accettando però le conseguenze.
Anche quando si sia accettato di utilizzarlo non è, però, così semplice farlo. Per questo motivo, invece di improvvisare e poi fare errori che vanificano ogni buona intenzione, sarebbe molto meglio muoversi per gradi. Perché non basta utilizzare il “o\a” o un asterisco per dimostrare di saper maneggiare un linguaggio inclusivo.
C’è una domanda che occorre porsi prima di cominciare: perché dover adottare un linguaggio inclusivo? Per spiegarlo proverò a ricorrere ai miei studi di antropologia culturale.
Che il mondo in cui viviamo sia sempre stato vasto e popolato da diverse società con elementi culturali, abitudini, tradizioni, pratiche e credenze diverse non lo si scopre certo ora, nel 2021. Per cercare queste differenze, però, non è necessario andare in capo al mondo in posti esotici; basta aprire per bene gli occhi (e la mente) e guardare in casa propria.
Faccio questo discorso perché è importante comprendere un concetto fondamentale, ossia che la differenza tra me e “l’altrə” (intesə come altro essere umano o altro gruppo umano) è una differenza che si costruisce non solo a partire da ciò che vedo ma anche dall’esperienza di vita di questo “altrə”. Difatti, troppo spesso, all’interno degli spazi politici e di propaganda la differenza viene sottolineata dal colore della pelle oppure dalla provenienza geografica. Eppure, la stessa famiglia vicina di casa nata e cresciuta nella vostra stessa città potrebbe seguire un credo religioso diverso, o potrebbe avere differenti abitudini alimentari.
Ciò non significa che anche laddove i nostri occhi non vedono una differenza, o peggio ancora negano una differenza – ad esempio etichettandola come immorale, innaturale o sbagliata – nel vissuto personale dell’“altrə” questa differenza non esista. Il problema spesso è stato che una società prepotente (ma potrei dire colonizzatrice) schiacciasse le altre società annullandone le particolarità e obbligandole a uniformarsi alla cultura degli occupanti, oppure rendendo quelle diversità utili al proprio dominio – come, ad esempio, la creazione delle razze umane e del conseguente razzismo.
Il linguaggio inclusivo: come ha influito la globalizzazione?
A rendere la situazione più complessa è stata la globalizzazione, nella quale non solo le persone, ma anche le idee, le credenze, le pratiche hanno accelerato i loro spostamenti viaggiando in giro per tutto il mondo. L’antropologo Arjun Appadurai ha paragonato questi spostamenti a flussi, correnti di acqua all’interno di un enorme oceano che è l’umanità. I social network, in questo senso, permettono un contatto quasi istantaneo con le idee e i movimenti provenienti da tutto il mondo.
Proviamo ora a fare 1+1: se da una parte abbiamo visto che l’“altrə” ha diritto ad avere la sua differenza rispetto a noi – e che tale differenza può manifestarsi in molti modi, da quelli più visibili a quelli meno – e dall’altra abbiamo visto che le idee viaggiano sempre più veloci, allora possiamo dedurre due cose importanti:
- la prima è che le richieste di maggior riconoscimento, rispetto e diritti da parte di gruppi sociali sono del tutto normali. È illogico pensare che questi gruppi sociali non esistessero prima di ora. La differenza è che oggi più persone possono trovarsi, parlarne, confrontarsi e riconoscersi;
- la seconda cosa è che coloro che si scagliano contro le richieste di maggior apertura al riconoscimento e alla tolleranza delle differenze, vivono su un pianeta tutto loro, convinti che il proprio punto di vista personale sia l’unico metro di giudizio dell’esistenza, mentre invece è tutto l’opposto.
Veniamo quindi al fulcro di questo discorso, ossia il linguaggio inclusivo. Un concetto che ne comprende due al suo interno: linguaggio da una parte e inclusività dall’altra. All’interno di una società la lingua è un elemento culturale potentissimo. Questo perché la lingua non è soltanto un insieme di suoni o elementi grafici che servono a descrivere il mondo. Al contrario, crea il mondo perché è possibile pensare e parlare solo di ciò che si conosce attraverso il linguaggio. L’esempio che viene spesso citato a sostegno di questa affermazione è la lingua degli Inuit e le innumerevoli parole che si riferiscono a “neve”: laddove per noi quei cristalli di ghiaccio ammassati in cumuli bianchi sono “neve”, per gli Inuit sono molto di più perché hanno le parole per descrivere quel molto di più che noi non vediamo e comprendiamo.
L’evoluzione della lingua
Ogni lingua però vive un costante processo di modifica per adattarsi al mondo nella quale viene usata. Pensate un attimo se utilizzassimo con un italiano dell’800 la parola pneumatico, smartphone, digitale, computer, led, o molte altre; non saprebbe di cosa si stia parlando. Potremmo, in questo modo, dire che abbiamo rovinato la lingua italiana? No, abbiamo solo trovato parole per ciò che dovevamo comprendere. Introdurre nuove parole (e quindi nuovi concetti) oppure modificare le parole esistenti per estenderne il campo di senso non è qualcosa che deve inorridire, preoccupare, spaventare o provocare rabbia. Si tratta piuttosto della normale vita di una lingua in uso.
Il secondo concetto è quello di inclusività. L’alterità è la sostanza del mondo. Un mondo che quindi non è fatto solo dalle categorie che ritengo valide a livello personale, ma da molto di più. Il fatto che io senta che il mio sesso biologico e il mio genere sessuale siano concordi non significa che per tutto il mondo sia così o debba essere così. Il fatto che il mio orientamento sessuale sia eterosessuale non significa che per tutto il mondo sia così. Come me, anche il resto del mondo è partecipe della vita e, come me, ha diritto a poter utilizzare una lingua comune che li renda partecipi del mondo nel quale tutti viviamo. Inclusività significa permettere ad una lingua di comprendere e spiegare il mondo che la circonda e questo mondo deve includere i gruppi che vogliono partecipare e che devono poter partecipare della vita sociale.
È aberrante anche solo l’idea che per una presunta tradizione linguistica si impedisca a persone di vedersi riconosciute e rispettate. Una lingua che non si modifica è una lingua morta, ed un linguaggio che non abbraccia l’“altrə” è un linguaggio chiuso e ottuso, che altro non fa che descrivere il mondo chiuso e ottuso di chi lo utilizza. Ma al di fuori di questa ottusità il mondo è più vasto e più vario. Coloro che da un linguaggio si sentono esclusə o, peggio, discriminatə, hanno il diritto di lottare perché quel linguaggio evolva per rappresentarlə. Coloro che da un linguaggio si sentono inclusə e ben rappresentatə avrebbero il dovere di abbracciare la lotta dellə esclusə per estendere questa inclusività, perché lasciar fuori è un atteggiamento o ignorante (e dall’ignoranza si può guarire imparando) o ignobile. Nel momento in cui si sceglie di adottare un linguaggio inclusivo, si impara a farlo, nel momento in cui non lo si fa, si deve solo scegliere se si vuole essere ignorantə o ignobilə.